L’Empire State Building e l’ananas

“Sembra l’Empire State Building visto da Nord-Est”, pensò riferendosi a una macchia di urina sul cemento. “E quella un ananas.”

Si chiama pareidolia ed è un processo mentale che permette di identificare specifiche figure in macchie dalla forma casuale. Lui si concentrava su questa attività quando era agitato, e in quel momento lo era parecchio.

Tastò con un piede la consistenza di una gomma da masticare appiccicata per terra, rimanendo un po’ interdetto, dato che se la sarebbe immaginata più morbida.

Il movimento d’aria calda indicò un treno in arrivo.

Si piantò saldo sulle gambe e incurvò la schiena per prepararsi all’impatto con l’onda d’urto. 

La peluria sulla mandibola si alzò ritmicamente, spinta dai masseteri in contrazione.

Fissò l’ananas più intensamente.

Del resto, non avrebbe potuto farsi tutta la strada a piedi. Quello era fuori discussione. Per quanto temesse la metro, non avrebbe di certo potuto affrontare tutte le strade, le macchine e le persone lungo il percorso.

Quindi la metro era la soluzione più logica.

Aveva deciso che era giunta l’ora di andare a trovare il suo vecchio amico Mc Grey giù a Brooklyn. Erano tre primavere che non si vedevano, ma da giovani avevano passato insieme del gran tempo di qualità e quella gita era all’interno di un personalissimo e auto-definito programma di “self-improvement”. Aveva sentito questa parola molto spesso ultimamente. C’erano alcuni aspetti della sua personalità che non gli piacevano proprio. Ad esempio si riteneva pigro e solitario e per lui era giunta l’ora di uscire dalla propria confort-zone. Anche questa parola andava per la maggiore. Così, come primo passo di questo programma aveva deciso che valeva la pena rispolverare alcune vecchie relazioni di quando era giovane. Brooklyn, però, era lontanissima.

Per attendere il treno si era messo ad aspettare in un angolo, alla fine della banchina. Una posizione ritirata, con le spalle coperte. Le vie di fuga erano poche, ma in caso di necessità aveva calcolato che con due salti avrebbe potuto attraversare i binari.

Era un buon posto. Poca gente, soprattutto. E le macchie di urina lo tenevano occupato. L’odore anche non era male. Acre, ma animale. Copriva quello di gomma bruciata. 

Un boato, e il treno emerse dal tunnel.

Muscoli contratti.

Stridio dei binari.

I muscoli si rilassarono insieme al calo dei decibel. 

L’atmosfera rimase in attimo sospesa. Come se anche il treno avesse bisogno di qualche secondo prima di aprire le porte ed essere pronto ad accogliere altri umani dentro di sé. 

Rimase con gli occhi chiusi finché non sentì lo schiocco degli ingranaggi.

Poi ancora qualche secondo.

Valutò addirittura se rimanere lì immobile e lasciarlo ripartire. Ma avrebbe dovuto aspettare ancora e soprattutto sopportare un’altra onda d’urto. 

Strinse i denti e sollevò le palpebre. Una signora lo fissò sul ciglio della banchina, sospesa tra il treno e la terraferma. Alla donna tremò una guancia e le si alzò un angolo del labbro. Poi si girò dirigendosi verso le scale. Prima di sparire dietro un angolo la vide lanciargli un’altra occhiata; aveva ancora la stessa smorfia dipinta in faccia.

Era consapevole che la metro non piaceva a nessuno, e che poteva tirare fuori un’atavica ostilità in ogni essere vivente, ma non riuscì comunque a silenziare del tutto la pennellata di umiliazione che lo sguardo della donna gli aveva lasciato. Tanto che quasi si lasciò chiudere le porte davanti. Per fortuna ogni tanto il corpo meccanico ignora quello che succede nelle profondità della mente e una coordinata successione di contrazioni muscolari lo catapultò dentro il vagone. Le porte gli si serrarono dietro le natiche.

Rimase un secondo immobile, poi si scrollò per mandare via i residui di disagio rimastogli sulla pelle. Bene. Ora era sul treno. Ce l’aveva fatta.

Il vagone era mezzo vuoto. Si diresse verso un posto libero. Il pavimento appiccicoso ritardava di qualche frazione di secondo il movimento dei piedi, producendo piccoli schiocchi ogni volta che avanzava di un passo.

Un fiotto di aria fredda gli arrivava diretto sopra la nuca. Poteva sentire i bulbi piliferi che cominciavano a contrarsi. Alzò lo sguardo. Insegne pubblicitarie mostravano denti scoperti e colori accesi.

Sentì un bisbiglio. Una bambina lo stava fissando. Le iridi galleggiavano al centro di occhi grandi come due mele. Stava tirando la maglietta alla madre chiedendole qualcosa con un filo di voce.  La donna era persa dentro uno schermo.

Pensò che poteva essere un gesto gentile scoprire i denti. Di solito funzionava. Ai bambini piaceva sempre. Era bravo con i piccoli.

Ottenne solo di produrre un sussulto nel corpo minuto. La bambina lo abbandonò un attimo con lo sguardo solo per prendere la faccia della madre tra le mani e girarla di forza verso di lui. Gli occhi della madre rimasero un secondo ancora calamitati verso lo schermo, poi lo agganciarono.

La bocca stropicciata tra le mani della figlia si aprì un po’. Senza cambiare posizione, alzò le braccia puntandogli addosso il telefono. Era abituato alle foto, ma avere quei cosi puntati addosso era sempre fonte di disagio.

Ci fu un rumore metallico.

Forse aveva fatto male a prendere la metro.

Di certo non si aspettava questo tipo di accoglienza. Immaginando il viaggio si era concentrato di più sulla sua ansia, sui rumori forti che avrebbe sentito, il fastidio della vicinanza con altri corpi, gli odori delle persone. Però si aspettava di essere totalmente ignorato dalla popolazione. Era abituato a vedere branchi di umani che uscivano dalle scale della metro in perfetto silenzio, ordinati, ignorando completamente la presenza di altri corpi. Si muovevano tutte senza spostare lo sguardo, come se si lasciassero guidare più da un sesto senso che dalla vista.

E invece niente. Sembrava proprio che oggi le persone fossero più recettive. E in particolare più recettive verso di lui. Si grattò sopra un orecchio e cercò di abbassare un ciuffo che tendeva al alzarsi sopra la testa. Forse era solo molto spettinato. O forse aveva qualcosa in faccia. Si passò i palmi sul naso e sulle orbite. Non sembrava. Intanto madre e figlia continuavano a fissarlo. La madre aveva allungato anche una mano verso il signore di fronte a lei. Lo colpì sul ginocchio. Il signore alzò lo sguardo indispettito verso la donna. Poi ne seguì lo sguardo. Stessa reazione: occhi ingranditi, mandibola cascante. Riprovò con lo scoprire i denti. Nulla. Si iniziò a fissare le gambe in imbarazzo.

L’altoparlante gracchiò qualcosa. Chissà quanto gli mancava ad arrivare. Prima di partire aveva guardato una mappa. Dovevano essere 10 fermate. Sarebbe stato un lungo viaggio.

Notò che la salivazione cominciava ad aumentare. Provò a concentrarsi sul pavimento. Niente Empire e niente ananas: le piccole macchie colorate su sfondo grigio erano disposte in modo tale da non permettere al suo cervello di comporre la benché minima figura.

Sentiva ancora addosso lo sguardo delle persone e con la coda dell’occhio vide che il signore si stava alzando. Si girò verso di lui. Aveva il giornale arrotolato in mano.

“Qui si mette male”. Pensò.

Il tizio compì qualche passo nella sua direzione con una camminata sghemba, tenendo il busto all’indietro. Face qualche piccolo passo protendendo il giornale. Si chiese come avrebbe dovuto reagire se fosse stato punzecchiato con il Times. Meglio il Times di altri si disse. Ma comunque non piacevole. Se rimaneva immobile c’era il rischio che poi glielo tirasse addosso. Ma non sapeva se aveva voglia di mordere la mano al suo aggressore. Un suo amico qualche mese prima aveva morso un passante e da quel giorno non lo aveva più visto nessuno. Un brivido gli passò tra le scapole. Il tizio era sempre più vicino.

Sentiva i peli che cominciavano a sollevarsi.

Non era un tipo aggressivo. Anzi, gli piaceva farsi i fatti suoi.

Ma in alcune situazioni non si è padroni del proprio corpo. E dalla propria emotività. È una pura reazione fisiologica a uno stimolo esterno. Si alza il livello ematico di adrenalina e cortisolo. I recettori fanno il loro lavoro e l’arousal aumenta. Sapeva che aveva ancora poca riserva. Entro breve non sarebbe stato più tanto facile controllarsi.

Venne in aiuto il treno che rallentò facendo sbilanciare il tizio. La forza cinetica rallentò la sua timida avanzata riportandolo di qualche passo indietro.

Colse la pausa temporanea per prendere fiato. Immaginò un prato verde. Il sole. Il rumore dell’acqua. Gli ingranaggi delle porte che si aprono. Questo non era immaginato. Apri gli occhi. Le porte si erano aperte veramente. Colse la figura dell’uomo con il Times che spariva fuori dal vagone. Oltre il vetro la bambina e la madre si stavano dirigendo a lunghi passi verso un’altra carrozza. Ora era solo. Fantastico. Gli uscì un lungo sospiro. Ma ne sarebbero entrati altri. Attese qualche secondo. Niente. Possibile che la fortuna avesse girato a suo vantaggio? Magari avrebbe fatto il resto del viaggio da solo e tutto sarebbe andato bene. Il suo ottimismo fu frenato da un paio di persone che comparvero davanti alle porte aperte. Vedendolo si fermarono di colpo, facendo marcia indietro.

Bene così. Meglio sentirsi poco apprezzato che rischiare giornalate sulla testa.

I minuti passavano. Era ancora solo. Lasciò penzolare gli arti giù dal sedile, muovendoli piano. Salto giù e percorse un paio di metri avanti e indietro nella carrozza.

“Solo che il treno riparta in fretta”, pensò. Ma gli ingranaggi sembravano congelati. Tutto era immobile. Addirittura non si vedevano neanche più le persone passare davanti ai finestrini.

Poi ne arrivarono due. Vestiti uguali.

“Dannazione.”

Entrarono nel vagone da due porte diverse. Uno aveva un bastone con un cappio alla fine. L’altro una rete. Si avvicinarono a lui lentamente. Era circondato.

Usare la metro era stata definitivamente una cattiva idea.

E’ dura la vita di un procione.

E Al diavolo il self-improvement.

In copertina: Amy Stewart

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