Il racconto dell’elefante scienziato parla di un elefante che fa lo scienziato. In quanto elefante ha un grosso paio di orecchie, è grigio, rugoso, enorme e con una lunga proboscide. In quanto scienziato ha un laboratorio fatto di canne di bambù, una buca profondissima dove tiene le sue cavie e una riserva di banane da spiluccare mentre pensa.
In questo racconto il pachiderma accademico ha un PHD in neuroscienze (o il corrispettivo di un PHD e delle neuroscienze per il mondo alternativo di questa storia). In particolare negli ultimi mesi si sta occupando di indagare il senso dell’olfatto nelle altre, inferiori, specie animali. Ora vi darò qualche particolare riguardo al mondo di questa storia. È un mondo dominato da elefanti che per qualche capriccio di Madre Natura sono finiti a controllare il globo terraqueo. Diffusi più o meno uniformemente sulla superficie terrestre, hanno sviluppato complessi gruppi sociali, e, come spesso succede quando si creano larghi insediamenti di simili, un efficiente sistema di comunicazione. Con il tempo il sistema comunicativo ha poi indotto un pensiero simbolico. Siamo ancora agli albori di questa società pachidermica e i membri di questo gruppo di mammiferi stanno ancora cercando di sviluppare le loro idee sul mondo faticando a gestire questa nuova funzione cognitiva in grado di indurre uno stato di perpetua agitazione e costante ruminìo sul concetto di “significato”. Qual è il significato della vita? E le banane sono lì solo per essere mangiate o servono anche ad altri scopi? C’è un modo “giusto” di rotolarsi nel fango? E via dicendo. Questo costante stato inquisitorio ha portato gli elefanti a indagare minuziosamente la natura in cerca di risposte. E il nostro amico scienziato si era di recente posto il problema della presenza o meno dell’olfatto negli altri esseri viventi.
La teoria dominante sull’argomento era che gli altri animali, non avendo la proboscide, fossero anosmici, ovvero privi della capacità di sentire gli odori. È vero che possedevano piccoli accenni di protuberanza facciale in forma di timidi tentativi di nasi, ma questi non erano certo sufficienti a permettergli di possedere il senso dell’olfatto. I più possibilisti avevano provato a ipotizzare che, forse, le forme di vita con il naso più lungo, tipo il tapiro e la saiga (se non avete idea di come siano fatti questi animali andateveli a cercare in internet) fossero in grado di percepire un lontano sentore di fragranza, ma solo se lo stimolo sorgente fosse stato di intensità estrema.
La comunità scientifica era partita da un’osservazione semplice: la proboscide ha una funzione di base, ovvero la respirazione, e molte funzioni accessorie come la presa, la produzione di barriti, l’aspirazione e l’eiezione di acqua, l’abbraccio dei cuccioli, lo scambio di effusioni tra elefanti innamorati, il grattamento della nuca, l’apertura di noccioline, e, infine, la percezione degli odori. L’unica funzione del naso che per ora era stata osservata negli altri mammiferi era stata la funzione respiratoria: questo era stato provato empiricamente infilando canne di bambù, sterco, paglia e terriccio dentro le narici di animali cavie che erano poi decedute per asfissia in pochi minuti. Le altre funzioni, invece, erano veicolate da altre componenti anatomiche (ad esempio, era ben noto come le scimmie per grattarsi la testa usassero bizzarre protuberanze tentacolari al termine degli arti anteriori) di cui nessuna però era stata dimostrata atta a svolgere la funzione olfattiva. Lo spiccato ragionamento induttivo dei pachidermi li portò quindi a concludere che nessun altro essere vivente fosse in grado di sentire gli odori.
Il nostro elefante scienziato non ne era però del tutto sicuro e non amava prendere per scontate le leggi stabilite dai suoi predecessori, dato che spesso tali leggi erano basate più sul ragionamento teorico che su dati empirici. Già in passato la sua insaziabile curiosità lo aveva portato quindi a voler verificare di persona la veridicità di quanto studiava sui libri (che poi libri non erano, ma grosse foglie di banano, seccate e incise con un legnetto carbonizzato) e questo spirito indagatore gli era già costato la cattedra in Biologia Comparata presso L’Ivory College of Science, dato che spesso il genio e la fame di conoscenza dei giovani vengono scambiati per insolenza dal gruppo degli anziani.
Così, il pachiderma di questa storia si era ritirato nel suo laboratorio privato a condurre esperimenti in autonomia. La sua critica alla teoria corrente sull’anosmia universale partiva dai precisi studi di anatomia. Aveva infatti osservato che un gran numero di altri mammiferi possedeva tutte le strutture neurali e anatomiche presenti negli elefanti; in particolare la lamina cribrosa dell’etmoide, che nei pachidermi raccoglieva sensori olfattivi convogliando lo stimolo odoroso alla corteccia sensoriale, era ben formata anche negli altri mammiferi, seppur di dimensione minore (e studiarla non era stato facile: con le sue zampe enormi e paffute ogni volta che provava a rigirarsene una davanti agli occhi, questa si frantumava in minuscoli pezzettini). In più, alle analisi morfologiche si aggiungevano osservazioni comportamentali. Aveva infatti notato come alcuni animali, ad esempio i coyote, a volte girassero con le narici piantate a terra, seguendo percorsi sinuosi e invisibili fino a una carcassa (da lui diligentemente nascosta sotto sterpaglia e sassi di fiume). Certo, potevano anche tenere il capo così abbassato per vedere meglio le tracce su terreno, ma nulla escludeva che seguissero il proprio senso dell’olfatto. Ancora, i felini spesso sceglievano la posizione controvento quando intenti a cacciare. Se lo facessero perché preferivano il vento in faccia nella corsa contro la preda non poteva dirlo, ma non poteva fare a meno di pensare che fosse una strategia per nascondere il proprio odore alle gazzelle (lui stesso si metteva spesso controvento se preso da attacchi di flatulenza in presenza di una femmina attraente della sua specie).
Dopo queste prime osservazioni preliminari aveva deciso di mettere a punto uno studio scientifico a tutti gli effetti e recentemente era giunto a sviluppare un esperimento che avrebbe risolto la questione una volta per tutte. Le cavie scelte per questo studio erano stati gli scimpanzé: dato che erano tra gli animali con la protuberanza proboscidea più corta, se fosse riuscito a dimostrare la presenza dell’olfatto in questa specie animale, per le altre sarebbe stato un gioco da ragazzi. L’esperimento si basava sull’eliminazione dei sensi della vista e del gusto in un esemplare di scimmia lasciato senza cibo per tre giorni. Questo veniva poi sottoposto a una scelta tra una montagnola di letame e una di frutta bella matura e profumata. Le due sorgenti odorose erano collocate al termine di due brevi corridoi di canne basse, espediente che serviva ad evitare che la cavia si imbattesse in uno dei due stimoli sorgente per caso (uno dei primi soggetti era rovinosamente scivolato sul letame, finendo con la faccia sul piatto di frutta, iniziando ad azzannare kiwi e mele senza neanche rialzarsi – dato per altro contato per buono dal nostro amico pachiderma). Il grigio ricercatore all’inizio si era limitato a bendare gli occhi delle cavie e a riempirgli la bocca di paglia mista a sabbia per impedir loro di usare in qualche modo il senso del gusto. Purtroppo però, i revisori della rivista scientifica con cui collaborava avevano sostenuto che i suoi animali potessero aver visto attraverso la benda, o che lo stimolo gustativo non fosse stato soppresso a dovere. Inoltre, aggiunsero, le cavie avrebbero potuto farsi guidare dall’udito nella loro scelta. Come si faccia a “sentire” la frutta lui non lo sapeva affatto, ma visto che i revisori hanno sempre l’ultima parola, aveva deciso di impostare un esperimento più drastico. Di conseguenza, per evitare questi bias, l’elefante aveva optato per la scelta di sicuro più macabra ma scientificamente più precisa di enucleare i bulbi oculari delle sue cavie, sigillarne le orecchie con la pece e tagliarne la lingua, applicando in aggiunta una sostanza caustica sul resto della cavità orale, in modo da eliminare all’origine qualsiasi tipo di critica da parte dei suoi detrattori.
E lì era, nel giorno dell’esperimento con la sua ultima cavia. Aveva ripetuto la procedura già quarantanove volte e più o meno nel 80% dei casi lo scimpanzé era andato sicuro verso il piatto di frutta. La percentuale restante si riferiva a scimmie decedute poco dopo essere state liberate nella sede dell’esperimento, non avendo quindi avuto il tempo di compiere la loro scelta. Tra le mani aveva quindi un risultato inequivocabile, ma ben consapevole della puntigliosità del mondo accademico, lui voleva ottenere dati definitivi: se tutte le scimmie sopravvissute avessero scelto il piatto di frutta, nessuno avrebbe più potuto contestare i suoi risultati. Come gli altri, l’animale era stato tenuto tre giorni senza mangiare né bere e quando la porta della gabbia di bambù venne aperta, per qualche secondo questo non si mosse. Il nostro scienziato ebbe un attimo paura che fosse morto anche lui, ma, fortunatamente, dopo alcuni energici scossoni alle sbarre la cavia si trascinò fuori dalla cella. Era incerta sulle gambe e teneva un arto superiore alzato nel probabile tentativo percepire gli ostacoli. L’elefante se ne stava di lato, con la sua foglia di banano davanti e un casco di platani a portata di proboscide nella probabile eventualità di un attacco di fame improvviso durante il corso dell’esperimento. Barcollando di qua e di là, la scimmia non sembrava capire dove si stesse trovando, cadendo per giunta di lato ogni tre passi. Questo comportamento era stato osservato in molti soggetti e il pachiderma aveva concluso che fosse dovuto un danno all’apparato vestibolare verosimilmente causato dalla pece versata nel condotto uditivo. Passarono alcuni minuti e il pachiderma cominciava a innervosirsi; lo scimpanzé non sembrava aver notato la presenza del cibo, né tantomeno del letame, vagando senza meta all’interno dell’arena polverosa. Quando però, d’un tratto, si alzò un venticello leggero, il primate si scosse finalmente da quel ciondolante torpore rizzandosi sulle zampe e allargando le narici. In questo caso però, la scimmia non si diresse verso nessuna delle due montagnole, ma, dopo qualche secondo di esitazione, iniziò ad avvicinarsi al pachiderma che se ne stava seduto sulle enormi natiche a fissare in silenzio il suo animale da esperimento. Questo non era ancora mai successo. Va bene che quello era uno dei giorni in cui i problemi intestinali sopra citati erano più insistenti del solito e che di certo non si era limitato nella sua funzione espulsiva, ma era anche vero che se quella stupida scimmia si lasciava attirare da una scoreggia piuttosto che da un banchetto di frutta, qualcosa doveva essere molto alterato nel suo sistema olfattivo. Quando ormai mancavano pochi centimetri al deretano dell’elefante, la cavia deviò all’ultimo, afferrando con un colpo sicuro il casco di banane e iniziando ad azzannarne veloce un paio.
Lo scienziato si trovava a questo punto in difficoltà: il modo in cui si era svolto quell’esperimento era di certo insolito, ma non si poteva negare che, più o meno, l’assunto di base e il risultato ottenuto non variavano molto dal desiderato.
La proboscide dello scienziato si portò sulla nuca nel classico atteggiamento di riflessione, e dopo qualche vigorosa sfregata si decise: l’esperimento ero valido. Il pachiderma fece un paio di segni sulla foglia di banano, la appoggiò a terra, e con un colpo secco di zanna staccò la testa al primate, gongolando nell’idea che la cattedra di Biologia Comparata all’Ivory College sarebbe stata di nuovo sua.
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