Ritorno in macchina sotto un cielo vischioso che appanna il parabrezza. È un cielo invadente, che ti penetra attraverso le cornee per impregnare le tempie con la sua molle apatia. Da quando sono tornato, incombe su di me, diluendo i colori e rendendo tutto più spento, opaco, privo di vita. Non rimane là, in alto, dove il cielo è previsto che risieda, ma preme sulla terra, pesante e grave. Così presente che sembra condensarsi in cupi oggetti spettrali, come questi capannoni grigi che mi scorrono accanto, e la cui intermittenza funge da sola testimonianza del mio fluire attraverso lo spazio.
La strada è dritta, ininterrotta, e richiede da me unicamente la costanza dell’immobilità, inchiodando la mia coscienza in un punto che si perde oltre la congiunzione della prospettiva, oltre un orizzonte sfumato. Se si dispiegasse in curve, tornanti, rotonde, la strada darebbe movimento al mio pensiero, ossigenerebbe l’interno delle meningi, sarebbe una fonte di movimento vitale. Ma invece si consuma, immutata, sotto le mie ruote, sempre uguale a se stessa.
All’improvviso un cartello cattura la mia attenzione e mi strappa dalla questo stato di congelato torpore, inducendo lo sguardo a seguirne il rapido fotogramma che lampeggia al mio passaggio.
Il cartello riporta una scritta irregolare incisa con una vernice scura su una tavola di legno colorata di giallo. Le lettere sono imprecise, la stesura del colore approssimativa, segno dell’opera di una mano probabilmente poco avvezza ad impugnare il pennello: “Pane”.
È solo un lampo, ma basta a ricordarmi che sulla terra esistono altri uomini e non sono solo in un deserto di terra fradicio di questo cielo scuro. C’è almeno un altro uomo a condividere il mio destino. Un uomo che ha intinto nel colore le setole ruvide per indicare la presenza amica, componendo una parola sola, ma vera: “Pane”. È un uomo che in grado di impastare, attendere il lavoro silenzioso dei lieviti, cuocere. È un uomo capace di produrre qualcosa di vitale, di nutrire, di reale, un uomo a cui batte un cuore, si riempie il petto del respiro, piange e ride sotto il mio stesso cielo.
Scopro le mie narici a indagare l’aria in cerca del profumo della farina che si gonfia sotto i panni umidi. Le mani stringono il volante a palpare la pasta elastica che viene tirata mentre i singoli ingredienti scompaiono nella loro individualità diventando un tutt’uno in un unico agglomerato di impasto morbido. Sulla faccia ho il caldo scottante del forno aperto che ingoia le teglie piene e negli occhi la luce rossa delle braci che luccicano sotto uno strato di cenere opaca.
Come vinto dal giallo di quel cartello, il cielo sfugge alla morsa di grigio livore e il sole, scivolando sotto le nuvole prima dell’ultimo tuffo oltre l’orizzonte, colora l’atmosfera di nuova vita.
“Pane”.