C’era una scatola abbandonata in mezzo agli arbusti. La carta umida stava pian piano lasciando la rigida forma degli oggetti industriali, per acquisire una struttura più viva e porosa, mentre tornava alla terra. Sopra un lato del pacco era però ancora leggibile una piccola dedica, ma non c’era più nessuno che potesse leggere quelle parole; le persone che avevano inciso quei simboli e maneggiato l’oggetto con il suo contenuto erano morte da tempo. La scatola però rimaneva e insieme a lei, sparsi nel mondo, tanti altri oggetti creati dall’uomo, come segno di qualcosa che era stato e che ora era per sempre scomparso. Quella scatola era pensata per contenere una piccola statua, di cui ora però rimanevano solo i detriti scomposti tra le radici di un albero. L’aveva fatta un uomo con le sue mani, e la stava portando a una donna che viveva lontano, ma che con ogni sua forza avrebbe voluto vedere di nuovo. La statua assomigliava alla donna, o la donna assomigliava alla statua, e anche lui non sapeva veramente chi avesse modellato l’immagine dell’altra. L’uomo era partito con quella miniatura per ricongiungere le due persone, l’una di creta e l’altra di carne, quando già il suo mondo era prossimo alla fine, quasi sicuro che non sarebbe arrivato da lei; aveva lasciato la sua casa lo stesso, pensando che se non c’era futuro, tanto valeva che gli ultimi gesti fossero gesti di pura speranza. I suoi resti ora giacevano lì, scomposti come i frammenti della sua opera, nascosti in mezzo a quella umida terra piena di vita. Nella scatola si era fermato un seme di melograno che era cresciuto e il cui busto pareva la statua creata dall’uomo. Le radici avvolgevano i resti del pacco e in un punto del tronco le fibre della corteccia sembravano quasi intrecciate per creare la scritta sbiadita. “A te amore mio, perché la fine del mondo ci colga vicini”.