La prima volta che venni a sapere della casa nel bosco ero bambino. Si trattava di un rudere ereditato da mio nonno: poco più di quattro pareti di pietra tra le quali si diceva non avesse mai vissuto nessuno. Si sapeva della sua esistenza per sentito dire, ma la localizzazione non era nota ai membri della famiglia. Si raccontava, però, che quando mio nonno ne entrò in possesso, la prima cosa che fece fu sigillare porte e finestre, per proibire l’ingresso a chiunque, lasciando quello spazio inaccessibile per decenni. Non diede mai spiegazioni per il suo gesto, e da quel momento si rifiutò ostinatamente di parlare di quel luogo, lasciando che, con il tempo, la vegetazione coprisse sempre di più le pareti, avvolgendo l’edificio in un fitto di rovi e sottobosco.
L’esistenza di quella casa era trattata in famiglia con un misto di mistero e reticenza: tutti sapevano della sua esistenza, ma se qualcuno provava a parlarne, si cambiava rapidamente argomento o, addirittura, la domanda veniva deliberatamente ignorata, come se non fosse mai stata pronunciata. La ragione di questo riserbo estremo era legata principalmente al vecchio. Mio nonno, infatti, era capace di incupirsi e mettersi a urlare anche al minimo accenno all’argomento.
La mia mente di adolescente curioso non riusciva a capire in che modo un semplice ammasso di pietre potesse giustificare una simile omertà, e il mistero veniva fantasiosamente svelato con intricate storie horror e di fantasmi. Tuttavia, non ebbi mai il coraggio né la possibilità di avvicinarmi a quella casa, nonostante più volte io e i miei cugini ci proponemmo di cercarla, arrivando a elaborare intricati piani per scoprirne la localizzazione. I nostri tentativi andavano puntualmente in fumo con grande rapidità per il modo stesso in cui erano concepiti: fantasiosi e irrealizzabili, fatti più per impegnare le lunghe giornate estive che per essere davvero portati a compimento. Con il tempo poi, la vita prese il sopravvento su quel mistero irrisolto della storia familiare e quasi me ne dimenticai.
Alla morte di mio nonno, la casa passò nelle mani di mio padre. La trasmissione dell’eredità, di cui quella casa faceva parte, non fu affatto un processo facile, dato che il vecchio non morì di morte naturale ma scomparve nel nulla, ragion per cui prima di poterlo dichiarare morto, passò molto tempo e dovemmo affrontare lunghe trafile legali. Sotto la proprietà di mio padre le cose però non cambiarono, e la casa rimase un luogo inaccessibile e coperto dal segreto.
Fino a quando le cose non cambiarono all’improvviso e mio padre, quasi novantenne, un giorno mi chiese di accompagnarlo in quei boschi. Ne fui sorpreso e la richiesta mi sembró quanto mai strana; non riuscii tuttavia a rifiutare, sia per reverenza nei confronti dell’uomo ormai anziano, sia per la curiosità accumulata negli anni nei confronti di quel mistero familiare.
Durante il viaggio rimase silenzioso, limitandosi a dare qualche concisa indicazione stradale, finché non mi disse di accostare in un anonimo spiazzo al lato della carreggiata. Lasciammo lì la macchina e percorremmo con fatica il lungo sentiero che portava dentro al bosco, e, con ancora maggiore difficoltà, il tragitto non tracciato che conduceva all’antico rudere. Mio padre si sorreggeva appoggiandosi al mio braccio e a un bastone, mentre io mi facevo largo a fatica tra i rami bassi degli alberi. Arrivati nel punto in cui sorgeva la casa trovammo solo un cumulo di piante che si ergevano da un rialzo del terreno. Mio padre non me lo chiese, ma io iniziai subito a scavare a mani nude tra gli arbusti per cercare di rivelare la costruzione inghiottita dal bosco. Non fu facile, ma ci misi meno di quanto immaginassi: la vegetazione cedeva facilmente e riuscii a scoprire velocemente due terzi della facciata, in corrispondenza della porta.
Il vecchio si avvicinò, arrancando sul terreno dissestato, e lentamente appoggiò una mano sulla porta. Era ancora umida di terriccio, come un corpo a cui avevano appena strappato via la pelle. Rimase lì senza parlare per un tempo che non saprei quantificare, mentre dentro di me, a ogni minuto che passava, saliva una tensione sempre più difficile da controllare. Non so se fosse l’immobilità del vecchio, o l’atmosfera cupa del fitto del bosco, o ancora il trovarmi nel luogo che con il suo segreto aveva occupato una parte della mia mente per tutta la vita. Avevo l’impulso bruciante di entrare, sradicare di forza le assi che bloccavano la porta e spalancare quelle stanze, come fosse una ferita infetta che avevo bisogno di far spurgare.
A un certo punto non riuscii più a trattenermi, dovetti parlare.
“Entriamo?” Chiesi. La mia voce era uscita acuta, di un’ottava troppo alta, sintomo della tensione che mi pervadeva e che non riuscivo a spiegare.
Mio padre era ancora immobile, ma alle mie parole emise un lungo sospiro, abbassando lievemente il capo; con quel movimento parve come rimpicciolire e svuotarsi. Mi dava le spalle e non potevo vederne l’espressione, ma la mancata risposta spinse la mia agitazione, oltre ogni possibile sopportazione. Il mio corpo scattò in avanti, raggiungendolo davanti alla porta, e le mie mani, come dotate di vita propria, afferrarono le assi che bloccavano l’entrata. Nell’impeto del gesto diedi una spallata al vecchio, che non cadde, ma anzi, cominciò a lottare contro di me, opponendosi al mio tentativo di forzare l’ingresso della casa. Era anziano, ma la forza con cui mi contrastava era violenta, e mi trovai a rispondergli con altrettanta violenza. Nel mezzo di quell’assurda lotta, ci trovammo faccia a faccia, e mio padre, ad occhi sbarrati e con un filo di voce, mi sussurrò “Questa è l’eredità che ci passiamo”. Detto questo si lasciò andare e sotto la spinta del mio peso fu catapultato lontano, rovinando con la testa su un masso che spuntava dal terreno. Nell’istante in cui si sentì il suono raccapricciante del suo cranio che si spaccava, tornai in me. La consapevolezza di quanto avevo fatto mi piombò addosso con tutta la potenza possibile. Mi lanciai sul corpo inerte abbandonato per terra e cercai inutilmente di rianimarlo.
Rimasi lì, istupidito per un tempo infinito, fino a quando il mio sguardo non rimise a fuoco le pareti del rudere. L’idea mi attraversò la mente come una scarica elettrica, quasi fosse stata la casa a suggerirmela. Mi alzai, presi mio padre in braccio e lo deposi vicino all’entrata. Usando un bastone di legno robusto staccai le assi dalla porta e con una spallata entrai nell’edificio. Avevo intenzione di nascondere il corpo lì dentro, in un posto in cui nessuno sarebbe venuto a cercare e che nel tempo sarebbe scomparso dalla memoria e da questo mondo, inghiottito dalla vegetazione. Nessuno sapeva che eravamo stati lì insieme, e mi ripromisi di non parlare di quel luogo con anima viva. C’eravamo già passati per quella situazione: nei dovuti tempi il vecchio sarebbe stato dichiarato morto e quella casa sarebbe passata a me; quando questo sarebbe successo mi sarei occupato di distruggere l’edificio e con lui il suo segreto.
I miei piani, tuttavia, andarono in frantumi non appena vidi cosa conteneva la casa. Era molto più grande di quanto sembrasse dall’esterno, e consisteva in un unico ampio foro nel terreno, di una profondità che andava ben oltre quanto mi permettesse di vedere il debole fascio di luce che penetrava dall’ingresso. Una rampa correva contro le pareti della fossa, nelle quali si aprivano dei loculi bui. Dentro ognuno di essi erano riposti scheletri, mal coperti da vestiti ormai consumati dal tempo e risalenti a epoche passate: scendendo verso il basso con lo sguardo, pareva di ripercorrere la storia negli abiti e nei dettagli di quei corpi. All’inizio della rampa era abbandonata una pala, la cui asta era stata levigata dalle decine di mani che l’avevano impugnata prima di me.
Come in trance iniziai la discesa trascinando il corpo esanime di mio padre. Quando arrivai in fondo vidi i resti del nonno, nei quali non potei non notare la stessa frattura al cranio che portava mio padre. Issai quindi il vecchio nel suo loculo, e ne scavai un altro per me.